infarto del miocardio

 

 

 

Cosa significa la parola "Infarto"?

Infarto è il termine tecnico usato per indicare necrosi (nécrosi alla greca, necròsi alla latina) di un tessuto in conseguenza ad una brusca interruzione del flusso sanguigno arterioso dovuto a occlusione o rottura dell'arteria. La necrosi è di fatto la morte del tessuto cellulare dell'organo interessato dall'infarto o di una parte di esso. Si parla di infarto cardiaco o miocardico, splenico, polmonare ecc. a seconda dell'arteria interessata. Quello che si verifica più di frequente è l'infarto del miocardio

 

 

Cos'è?

Si usa il termine di infarto miocardico acuto (IMA) quando parte del tessuto cardiaco muore a causa della mancanza di ossigeno determinata dall'occlusione improvvisa di uno o più rami delle arterie coronarie (generalmente compromesse dalla malattia arteriosclerotica) a causa di un trombo o uno spasmo con blocco del flusso sanguigno in quel distretto cardiaco.

L'infarto miocardico è una malattia che colpisce più di duecentomila italiani all'anno e che in 1/3 dei casi conduce alla morte. Se l'infarto colpisce solo una zona limitata del muscolo cardiaco, le conseguenze non sono gravi. Se la lesione del muscolo cardiaco è molto estesa, può provocare la morte o un'invalidità (di grado variabile).

Oggi si riunisce l'infarto acuto del miocardio (sia non-Q che Q) e l'angina instabile sotto la definizione di

"Sindromi coronariche acute"

sulla base del comune meccanismo fisiopatologico, costituito dalla improvvisa riduzione/cessazione primaria del flusso dovuto alla rottura o fissurazione di una placca aterosclerotica all'interno del vaso coronarico

con successiva trombosi subocclusiva o occlusiva.

 

I pazienti con dolore toracico di tipo ischemico possono presentare o non all'ECG un sopraslivellamento del tratto ST. La maggior parte dei pazienti con sopraslivellamento del tratto ST svilupperà un infarto di tipo Q e solo una piccola parte un infarto non Q. La maggior parte dei pazienti senza sopraslivellamento del tratto ST, invece, svilupperà o angina instabile o IMA non Q, la cui diagnosi differenziale è resa possibile dal dosaggio sierico dei markers di necrosi miocardica e solo una piccola parte svilupperà, invece, un IMA Q

 

 

Quali sono i sintomi?

Il dolore è il sintomo con cui l’infarto si manifesta più frequentemente al suo esordio; è presente nell’85% dei casi e ha le caratteristiche tipiche del dolore anginoso (più o meno improvviso, intenso, oppressivo e prolungato localizzato al centro del torace e/o nella regione sopraombelicale che spesso si irradia al braccio sinistro, meno frequentemente a collo e mandibola), ma più intenso e prolungato, spesso accompagnato da irrequietezza (talora angosciosa) sudorazione, astenia, nausea, più raramente vomito e dispnea. La durata del dolore di solito e superiore a 20-30 minuti

Può essere complicato da aritmie (polso lieve e rapido), tosse insistente con secrezione rosea, stanchezza e sensazione d'ansia inspiegabile.

In genere, la pressione cala progressivamente sino a raggiungere il minimo nel corso della prima settimana: a volte, la brusca ipotensione può portare allo shock cardiogeno. La pressione della vena giugulare può essere normale o leggermente elevata; si possono avere alterazioni dei rumori cardiaci e crepitii polmonari.

Spesso a questo quadro clinico si accompagna la febbre nelle prime 24 ore. Altri fenomeni (leucocitosi, incremento della VES) sono dovuti alla necrosi del miocardio.  

Nei casi più gravi la morte è improvvisa e si verifica entro breve tempo dall'insorgenza dei sintomi. La morbilità e mortalità dell'infarto sono ascrivibili alle aritmie ed alla perdita di funzione di pompa che ne derivano.

Nel 30% dei casi, specie nei soggetti di una certa età, ed in quelli con diabete mellito, l'infarto si manifesta con sintomi diversi da quelli classici: 
1) il dolore può mancare del tutto od essere sostituito da una vaga sensazione di peso o di fastidio od essere
localizzato alla bocca dello stomaco, inducendo a pensare a sintomi di indigestione;
2) ci può essere solo debolezza generale o facile stancabilità con affanno di respiro;
3) i sintomi infine possono essere così lievi da passare inosservati, per cui il paziente impara di aver avuto un infarto solo in un secondo tempo, dopo esecuzione di un elettrocardiogramma.
 

Quando si verifica?

L'infarto è in genere la conseguenza drammatica di una malattia (aterosclerosi) che è iniziata molti anni prima e che ha già dato dei segnali in precedenza (per es. angina pectoris da sforzo). Ma può anche succedere che l'evento acuto sia il primo segnale della malattia 'silente' fino al momento in cui cause scatenanti fanno bruscamente  precipitare la situazione mantenuta in equilibrio fino allora. La rottura di una placca ateromatosa porta al deposito di un trombo intracoronarico, che a sua volta induce un'occlusione della coronaria in questione. Talora, anche un grave spasmo dell'arteria coronarica può provocare un infarto.

 

Le occasioni in cui si può manifestare l'infarto del miocardio sono varie.
Talora il dolore si verifica durante un intenso sforzo fisico compiuto da un soggetto non allenato: la partita di calcio
 "scapoli-ammogliati" effettuata magari dopo un anno di lavoro a tavolino e magari sotto il solleone e dopo abbondanti libagioni, è responsabile di molte precoci vedovanze.

A volte, in associazione ad uno stress psicologico intenso e prolungato, come conflitti o litigi nell'ambito familiare o lavorativo; talora si tratta di forti ed improvvise emozioni a contenuto sgradevole, come aggressioni, rapine, coinvolgimento in incidenti stradali ed in disastri come terremoti, alluvioni, incendi, etc.

In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi non si riesce ad individuare il meccanismo scatenante dell'evento infartuale, e va anzi ricordato che studi ormai numerosi di cronobiologia hanno dimostrato in maniera inconfutabile che il maggior numero di infarti si verifica nelle primissime ore del mattino quando il paziente è in completo riposo.
Gli infarti fatali avrebbero, inoltre, una stagionalità tra dicembre e gennaio.

Questa condizione morbosa, contro la quale la scienza medica lotta ogni giorno di, più, rappresenta oggi la più frequente fra le cause di morte ed è in costante aumento.

In Italia ogni anno circa 130.000 persone sono colpite da IMA. Di queste ne muoiono all’incirca 33.000 e circa 18.300 muoiono prima di raggiungere l’ospedale. La maggioranza di queste morti è aritmica e secondaria a fibrillazione ventricolare. Per il gruppo di pazienti che raggiunge l’ospedale in vita, è ormai accertato che la terapia trombolitica è in grado di determinare un miglioramento della funzione sistolica del ventricolo sinistro (VS) e una riduzione della mortalità a 35 giorni del 21% negli IMA Q transmurali che corrisponde ad un salvataggio di 21 vite per 1000 pazienti trattati.

Nonostante i miglioramenti degli ultimi anni, l’infarto acuto del miocardio rimane la principale causa di morte della popolazione adulta dei paesi occidentali con circa il 30% di decessi, la metà dei quali prima dell’ ospedalizzazione. Tra i pazienti ospedalizzati per infarto, la mortalità è del 7-15% durante l’ospedalizzazione e di un altro 7-15% nell’anno successivo.

Epidemiologia

La Cardiopatia Ischemica (C.I.) rappresenta una delle principali cause di mortalità sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Si calcola che nel solo 1990 i decessi per cardiopatia ischemica siano stati 6,3 milioni (2,7 milioni nei Paesi con economia di mercato consolidata e Paesi ex-socialisti, 3,6 milioni nei Paesi in via di sviluppo).

Per quanto concerne l’infarto miocardico acuto, i tassi di incidenza più elevati si registrano attualmente nei Paesi ex-socialisti (419/100.000), seguiti dai Paesi con economia di mercato consolidata (278/100.000). Di gran lunga inferiore è, invece, l’incidenza nelle altre aree del globo, compresa tra 60/100.000 (Africa sub-sahariana) e 186/100.000 (India). 

L’incidenza di infarto miocardico acuto aumenta esponenzialmente con l’età. Nei Paesi con economia di mercato consolidata, ad esempio, i maschi fanno registrare un’incidenza di 33/100.000 nella fascia di età 15-44, di  427/100.000 tra i 45 ed i 59 anni e di 1.415/100.000 oltre i 59 anni. Ancor più marcato l’incremento tra le donne, dove si osserva un’incidenza pari a 10/100.000 tra i 15 ed i 44 anni, che sale a 115/100.000 tra i 45 ed i 59 anni, ed a 1.089/100.000 oltre i 59 anni.

Al di sotto dei 60 anni di età l’incidenza di infarto miocardico acuto è da 2 a 4 volte più elevata negli uomini rispetto alle donne, mentre sopra i 60 anni tale rapporto scende a valori di poco superiori all’unità.

 

Qual è la differenza tra infarto ed ischemia?

S'intende per ischemia lo stato di sofferenza del muscolo cardiaco non sufficientemente irrorato. C'è una differenza fondamentale tra infarto ed ischemia.

L'infarto è un'interruzione totale del flusso deL sangue al cuore, i cui sintomi durano più di 15 minuti, non scompaiono con il riposo o con i farmaci (con la nitroglicerina sono solo alleviati) ed una parte del muscolo cardiaco incomincia a morire. È, quindi, una condizione stabile ed irreversibile. L'ischemia è transitoria e reversibile; consiste in una temporanea interruzione del flusso di sangue ossigenato al cuore; i sintomi durano pochi minuti e si possono alleviare con il riposo o con i farmaci.

Ciò che determina il punto di passaggio fra ischemia ed infarto è la durata dell'assenza di flusso; infatti, il muscolo cardiaco riesce a tollerare l'assenza di irrorazione per un tempo limitato (meno di 30 minuti), al di là del quale comincia ad andare in necrosi, a morire. Per cui il dolore dell'infarto si differenzia da quello dell'angina per il fatto che dura in genere più di trenta minuti, non si aggrava con l'esercizio e non è alleviato dal riposo o dal ricorso al trinitrato di glicerina (vasodilatatore). Il dolore può accrescersi d'intensità per minuti od ore e poi restare costante sino a recedere; è raro che l'evento sia del tutto indolore.

Nella maggioranza dei casi, l'ischemia si determina quando, a fronte di una maggiore richiesta di ossigeno e materiali nutritivi, e quindi di un aumento di flusso, determinata da un'attività fisica più o meno intensa, questa richiesta non può essere soddisfatta a causa dei restringimenti (stenosi) prodotti all'interno delle arterie coronarie dalla malattia aterosclerotica. Si crea così una discrepanza transitoria fra necessità di apporto e possibilità di adeguamento dei flussi; questa è la condizione detta "angina da sforzo".

 

Quali sono le cause?

L'aterosclerosi è la causa principale dell'IMA, che rappresenta una delle maggiori cause di morte nel mondo occidentale. In condizioni normali le coronarie sarebbero dei tubi puliti ma il concorso di vari fattori (di rischio) predispongono alla formazione di lesioni aterosclerotiche nelle coronarie, in particolare:

  • età,

  • precedenti familiari di infarti (le malattie cardiovascolari tendono ad aggregarsi in particolari nuclei familiari, per cui si finisce con l'ereditare la predisposizione ad ammalare);

  • dismetabolismo lipidico (sotto accusa gli elevati livelli di colesterolo - frazione LDL - e di trigliceridi);

  • ipertensione;

  • diabete;

  • fumo;

  • stress (soprattutto se prodotto di una vita frenetica con atteggiamenti protratti di impazienza, eccessiva competitività, ostilità verso l'ambiente sociale, lavorativo e familiare);

  • eccesso di peso corporeo e sedentarietà (connessa con l'obesità in quanto una riduzione del dispendio calorico, se si mantengono costanti le entrate, si traduce in un accumulo di grasso ed aumento di peso);

  • sesso (le donne, soprattutto in età feconda, sono relativamente protette dalla aterosclerosi coronarica rispetto agli uomini, non più dopo la menopausa).

In sintesi si può dire che l'infarto miocardico è, nel 98 per cento dei casi, conseguenza dell'aterosclerosi coronarica; altre cause eccezionali possono essere embolie, anomalie congenite, ecc. E più frequente nell'uomo che nella donna, almeno sino ai 40 anni, ed è strettamente legato a condizioni di surmenage psicofisico, abuso di tabacco, ipercolesterolemia, obesità, vita sedentaria. A questi elementi, che possono essere considerati predisponenti, vanno aggiunte alcune situazioni che talora possono risultare scatenanti quali sforzi, emozioni, interventi chirurgici e gravi emorragie.

 

DIAGNOSI

Diagnosi differenzialE

  1. dissezione aortica: dolore trafittivo e mobile, lungo la colonna vertebrale, irradiato posteriormente. La condizione clinica del paziente peggiora con il passare del tempo, ed il carattere di urgenza può anche non manifestarsi immediatamente; può associarsi ad infaerto del miocardio quando la dissezione coinvole anche le coronarie.
  2. pericardite: spesso il sospetto diagnostico nasce dall’ECG e viene confermato dall’ecocardiografia; il paziente tende ad assumere delle posizioni antalgiche (torace spostato in avanti), favorevoli se la pericardite è di tipo essudativo.
  3. esofagite o spasmo esofageo protratto: spesso lo spasmo regredisce anche con l’utilizzo di nitroderivati, entre l’esofagite permane e si presenta comunque come un bolore irradiato al centro del torace ma spiegato dal paziente come un bruciore, a volte come un dolore; spesso accompagna il pasto, maggiormente se ricco di grassi.
  4. miocardite: può associarsi ad un infarto, ma con l’esecuzione di una ecocardiografia viene abbastanza facilmente identificata; è meritevole dello stesso iter diagnostico dell’IMA.
  5. polmonite: assenza di elevazione degli enzimi di miocardiocitonecrosi e negatività dell’ECG.
  6. colecistite: solo in fase anamnestica entra in diagnosi differenziale; viene confermata dalla negatività dell’ECG e degli enzimi e dall’esecuzione di una ecografia della colecisti.
  7. pancreatite e/o acutizzazione di un’ulcera: è molto raro che determinino una sintomatologia che mimi un infarto del miocardio, ma lo screening laboratoristico e strumentale determinano una facile diagnosi differenziale. 

Come si arriva alla diagnosi?

Abitualmente sono le caratteristiche del dolore al petto che indirizzano alla diagnosi: il persistere del dolore oltre i 20-30 minuti, l'invariabilità rispetto allo sforzo e la mancata reazione al trinitrato di glicerina lo differenziano dall'angina.

La diagnosi dell'infarto miocardico, oltre che sulla sintomatologia, si basa su vari esami del sangue. È possibile l’individuazione di reperti specifici ed aspecifici; questi ultimi sono in genere i più costanti.

Reperti aspecifici sono: 

  1. l’elevazione della VES e/o della proteina C reattiva pCr
  2. leucocitosi neutrofila 
  3. è possibile una iperglicemia secondaria alla stimolazione del sistema adrenergico.

 Reperto specifico è l’elevazione degli indici di miocardiocitonecrosi:

  • 1.      troponina

  • 2.      mioglobina

  • 3.      CPK, creatina fosfochinasi

  • 4.      CK-MB, isoenzima miocardico e cerebrale della creatina fosfochinasi

  • 5.      GOT, transaminasi glutammico-ossalacetica

  • 6.      LDH, lattico-deidrogenasi. 

Dal tessuto del cuore colpito si versa nel sangue circolante una serie di enzimi il cui dosaggio permette di diagnosticare l'avvenuta lesione; iI più importanti sono le transaminasi (GOT, GPT), la creatinfosfochinasi (CPK, che compare nel sangue già nelle prime ore), la latticodeidrogenasi (LDH) e la Troponina (proteina strutturale dell'apparato contrattile del mocardio, dotata di alta specificità e sensibilità,compare nel sangue dopo circa 8 ore dall'inzio dell'IMA e permane fino alla 70.ma ora)

 

Gli elementi diagnostici essenziali vengono però forniti dall'elettrocardiogramma, che consente di accertare l'esistenza o meno dell'infarto, la sede di questo e l'evoluzione che ha subito. Sin dalle prime ore compaiono alterazioni caratteristiche con segni di lesione nella zona cosiddetta subepicardica (elevazione del segmento ST, che si normalizza con la riperfusione; inversione entro 24/48 ore dell'onda T) accompagnati o meno da quello che è il segno caratteristico cioè l'onda Q di necrosi (primo stadio). Dopo alcuni giorni o dopo alcune settimane il quadro tende a cambiare per la progressiva riduzione dei segni di lesione e la progressiva comparsa dei segni di ischemia subepicardica e di necrosi (secondo stadio). Con il passare del tempo i segni di necrosi si fanno più evidenti e quelli di ischemia o si accentuano o tendono a regredire (terzo stadio). La diagnosi della sede colpita da infarto è possibile osservando in quali derivazioni elettrocardiografiche, che esplorano differenti zone del miocardio, i segni caratteristici compaiano ed evolvano. L'elettrocardiogramma è essenziale anche per l'accertamento di alcune complicanze dell'infarto quali i blocchi e le aritmie.

Il controllo radiologico del volume del cuore, oltre che nella fase acuta, è utile nella fase di stabilizzazione per valutare gli esiti dell'infarto.

L'ecocardiogramma permette ulteriori approfondimenti e precisa meglio nei dettagli i reperti elettrocardiografici e radiologici.

Ecocardiogramma

È una delle metodiche più sensibili e specifiche per la diagnosi di infarto del miocardio.  Visualizza l’immobilità della parete miocardica lesa dall’ischemia protratta, e nella derivazione 2D è possibile l’identificazione sia del settore di miocardio infartuato, più sottile ed acinetico, sia dei restanti settori in fase di iperdinamicità per compensare la parte necrotica. Queste caratteristiche sono maggiormente identificabili in pazienti in fase di scompenso o di shock. La frazione di eiezione (FE) diminuisce. Nei casi di infarto della porzione destra del miocardio, la visualizzazione ecocardiografica rende possibile l’identificazione della lesione molto più efficacemente e precocemente dell’ECG. È importante differenziare eventuali zone di necrosi preesistenti, per non incorrere nell’errore di diagnosticare come nuovi degli eventi avvenuti tempo prima e magari misconosciuti al paziente o non identificabili all’ECG. In tal caso lo spessore e le caratteristiche spaziali sono fondamentali; un territorio cicatriziale reagisce in modo molto meno elastico alle variazioni di pressione del ventricolo, determinando un movimento molto meno plastico, come uno “schiocco”; un territorio appena infartuato è un territorio ancora elastico, che reagisce in modo apparentemente “attivo” alla contrazione del ventricolo.

E' importante differenziare: 

  1. Ipocinesia: ridotta caratteristica motoria di una zona di miocardio ma finlizzata.al risultato globale (eiezione).
  2. acinesia; assenza totale di contrattilità.
  3. discinesia: presenza di potenza contrattile ma non finalizzata al risultato globale.

Angiografia

È attuabile in 2 casi: 

  1. quando la diagnosi clinica porta a sospettare in modo deciso una ischemia del miocardio, ma gli esami laboratoristico-strumentali non dirimono in modo certo la diagnosi (ad es. enzimi di miocardiocitonecrosi solo lievemente mossi, ecocardiografia non attuabile per scarsa finestra acustica, ECG con pregresso blocco di branca sx);

  2. valutazione di un intervento di riperfusione tramite angioplastica (PTCA) o bypass.

Se intervengono delle complicanze come aritmie, shock ed insufficienza cardiaca non ci sono più dubbi. 

 

Si fa distinzione tra infarto acuto, in evoluzione o recente ed infarto pregresso.

I criteri per la diagnosi di IM  acuto, in evoluzione o recente sono, pertanto, rappresentati da:
 

1) tipico rialzo e graduale diminuzione, in caso della troponina, o più rapido rialzo e caduta, per CK-MB, con almeno uno dei seguenti:
a) sintomatologia di tipo ischemico
b) sviluppo di patologiche onde Q all'ECG
c) alterazioni elettrocardiografiche di ischemia: sopra o sottoslivellamento del tratto ST
d) pregresso intervento di rivascolarizzazione miocardica

 

2) alterazioni anatomo-patologiche di IMA all'esame bioptico

 

I criteri necessari per la diagnosi di pregresso IMA sono:


1) sviluppo di patologiche onde Q, precedentemente non presenti, in seriati ECG. I markers sierici di necrosi miocardica possono essere normali e il paziente può non riferire sintomi.


2) Alterazioni anatomo-patologiche di un infarto cicatrizzato o in via di cicatrizzazione all'esame bioptico.

 

IMA Q (O TRANSMURALE)

Si tratta di un infarto miocardico tipico (dolore, aumento degli enzimi di necrosi) con presenza di onde Q di durata > 30 ms.

  • ECG: ST sopraslivellato (> 1 mm); onda Q > 30 ms

  • aumento degli enzimi di necrosi

IMA NON Q

Si tratta di un infarto miocardico tipico (dolore, aumento degli enzimi di necrosi) con assenza di onde Q di durata > 30 ms.

Quadro clinico:

  • dolore anginoso >20-30 min;

  • ECG iniziale: non Q > 30 ms; ST sopraslivellato (> 1 mm); T negativa;

  • Enzimi: aumento di almeno il doppio degli enzimi sierici (CPK, LDM, CPK-MBa

 

Anche se non è sempre facile occorre differenziare l'infarto miocardico acuto da altre patologie che possono presentarsi con caratteristiche cliniche altrettanto drammatiche, come:

  • angina instabile, caratterizzata da attacchi di dolore ischemico;

  • embolia polmonare massiva, contraddistinta però da maggior dispnea e da dolore meno acuto;

  • infarto polmonare, caratterizzato dall'aspetto radiologico e dall'ubicazione e carattere pleurico del dolore;

  • pericardite acuta, in genere peggiorata dall'inspirazione e dalla posizione supina;

  • aneurisma dissecante, il cui dolore può essere più lacerante.

 La fase acuta dell'infarto miocardico può assumere questi diversi quadri clinici che ne condizionano l'evoluzione e la prognosi per la loro alta pericolosità. L'infarto non complicato evolve solitamente in circa 40-50 giorni, durante i quali nella zona colpita si forma una vera e propria cicatrice. L'estensione della lesione e la modalità del decorso, complicato o meno, condizionano l'efficienza futura del soggetto colpito.

Cosa fare?

Ogni sintomo che segnali l'inizio di un infarto impone l'immediata consultazione del medico. Se il medico non è rintracciabile, chiamare un' ambulanza e raggiungere immediatamente il pronto soccorso dell'ospedale più vicino.

Se si è in grado di riconoscere i sintomi dell'angina e dell'infarto, si potrà essere in grado di salvare la vita a se stessi o agli altri. Se invece non si riconoscono i sintomi o si attribuiscono ad un altro disturbo (un'indigestione…) il trattamento dell'infarto arriverà troppo tardi.
Purtroppo, in una buona percentuale di casi, sia l'ischemia che l'infarto possono non accompagnarsi a dolore: condizioni queste rispettivamente
definite ischemia silente ed infarto silente.

 

 

Terapia

 

Qual è la terapia per l'infarto miocardico?

Fino a poco tempo fa la terapia consisteva essenzialmente nell'alleviare il dolore e nel trattare le complicanze precoci.
La moderna terapia della malattia coronarica si basa su tre cardini:

  • le cure mediche (nuovi farmaci, conosciuti con il nome di trombolitici, permettono oggi di sciogliere rapidamente i grumi di sangue all'origine della maggior parte degli infarti),

  • la dilatazione con palloncino delle coronarie stenotiche (angioplastica coronarica),

  • la chirurgia del bypass aorto-coronarico.

 

La gestione della prima fase è critica: molte volte bisogna far fronte ad un arresto cardiaco e si deve cercare di limitare al più presto l'entità dell'infarto.

La prima tappa consiste nell'alleviare il dolore (farmaci come gli oppiacei possono però causare bradicardia ed ipotensione); dopodiché, il paziente deve essere ricoverato in terapia intensiva per far fronte al rischio di morte improvvisa (dovuta al sopraggiungere di gravi aritmie) con un rigoroso monitoraggio.

Le limitazioni del movimento dipendono dalla gravità dell'infarto: in casi lievi, il paziente può lasciare il letto entro 1-2 giorni ed essere rapidamente mobilizzato; in casi più gravi o aggravati da complicanze, il tutto è necessariamente più lento.   

 

Se insorgono complicanze la relativa terapia viene aggiunta a quella in corso e adattata caso per caso e si può dire anche momento per momento.

Nel caso di aritmie minacciose per la vita si provvede alla defibrillazione, in cui mediante una scossa elettrica si cerca di arrestare la fibrillazione del cuore, la somministrazione di farmaci beta bloccanti, per contrastare il danno al muscolo cardiaco e antiaritmici per regolarizzare il battito.

 

Se la terapia farmacologica non ha effetto, è necessario intervenire mediante la dilatazione delle coronarie stenotiche con palloncino attraverso l'angioplastica coronarica transluminale percutane (PTCA) oppure con intervento chirurgico di by-pass coronarico, in cui, innestando parti di vasi sani, si ripristina l'irrorazione del cuore.

 

 L'efficacia dell'intervento terapeutico è inversamente proporzionale al tempo che intercorre tra l’attacco e il ricovero nelle apposite unità ospedaliere.  In particolare va sottolineato come l'alta mortalità dell'infarto sia dovuta soprattutto alle complicanze della fase acuta che, per la loro comparsa improvvisa e per la loro alta pericolosità, devono essere immediatamente affrontate o addirittura prevenute. A questo scopo oggi i pazienti colpiti da infarto miocardico acuto vengono ricoverati in reparti speciali, le cosiddette unità coronariche o unità di cura coronarica ove è possibile, grazie a particolari attrezzature, controllare in continuazione una serie di parametri clinici quali l'elettrocardiogramma, la pressione arteriosa, la pressione venosa, la temperatura cutanea e la diuresi, e dove esiste la possibilità di cogliere la complicanza al suo primo insorgere.

 

 

La terapia va attuata il più velocemente possibile; è possibile che il paziente riferisca di essere un portatore di angina pectoris, per cui abbia già ingerito compresse di nitroglicerina, come ad ogni episodio di angor e di essersi recato in pronto soccorso in seguito ad una persistenza del dolore.

È sempre fondamentale misurare la pressione arteriosa, per poter decidere in modo più oculato sull’utilizzo di farmaci emodinamicamente attivi. 

Le possibili scelte terapeutiche sono: 

  1. terapia trombolitica,
  2. terapia anticoagulante,
  3. terapia antiaggregante,
  4. b-bloccanti,
  5. ACE-inibitori,
  6. antiaritmici. 
  7. nitroderivati,
  8. terapia chirurgica.

I farmaci in genere utilizzati sono i seguenti:

a) terapia trombolitica: è la terapia elettiva, con una riduzione del tasso di mortalità del 20%. Tuttavia, bisogna soppesarne rischi e vantaggi: in genere, la sua utilità è direttamente proporzionale all'entità dell'infarto. Ne beneficiano in particolare i pazienti con elevazione del segmento ST e blocco di branca sinistro. I vantaggi dei trombolitici diminuiscono rapidamente col passare del tempo, sicché essi vanno somministrati al più presto, entro 6, al massimo 12 ore. La principale complicanza è il rischio d'emorragia (specie cerebrale), che può essere fatale: precedenti di questo tipo, così come di emorragia gastrointestinale, vanno ritenuti gravi controindicazioni. Tre sono i principali agenti trombolitici: streptochinasi;  attivatore del plasminogeno tissutale (rtPA) e urochinasi; 

b) terapia anticoagulante: si ricorre all'eparina sottocutanea od endovenosa in alcuni casi specifici (per impedire la reocclusione, la trombosi venosa profonda in pazienti con complicanze o immobilizzati, la tromboembolia in pazienti con fibrillazione atriale o formazione di aneurisma);

c) aspirina: riduce di circa il 20% il tasso di mortalità, con vantaggi che si sommano a quelli della terapia trombolitica; è adatta in caso sia di infarto del miocardio che di angina instabile. La dose iniziale, da utilizzare in pazienti che non assumono già terapia cronica con acido acetilsalicilico, è di 325 mg x os in 1 somministrazione; si prosegue poi con 75 mg, sempre per via orale, dose che è già nota ai pazienti in terapia cronica perché coronaropatici noti prima dell’evento ischemico maggiore;

d) betabloccanti: la somministrazione endovenosa può presentare vantaggi secondari in caso di infarto acuto ma esacerbare l'insufficienza e la bradicardia. Si somministrano precocemenete e comunque entro 12 ore dall' esordio dell' IMA in tutti i pazienti che non presentano controindicazioni ai beta-bloccanti. Utili soprattutto nei pazienti tachicardici ed ipertesi o con tachicardia riflessa da nitroglicerina. Controindicazioni assolute: anamnesi di asma bronchiale, BPCO, scompenso VS (2a, 3a, 4a classe Killip), bradiaritmie. Controindicazioni relative: uso di beta-bloccant,: verapamil, diltiazem, gravi malattie vascolari periferiche, diabete mellito tipo I;

e) ACE-inibitori: interferiscono con il rimodellamento del VS e ne attenuano la dilatazione nel tempo à riducono a lungo termine l' incidenza di scompenso cardiaco congestizio e di mortalità, riducono possibilmente l' incidenza di reinfarto. Si usa Lisinopril 5 mg per os in un' unica somministrazione giornaliera entro 8-24 ore dall' insorgenza dei sintomi se la PAS > 100 mmHg ed in assenza di rilevamente insufficienza renale o stenosi bilaterale delle arterie renali. Dose di mantenimento 10 mg da raggiungere dopo 48 ore dall' IMA. Dopo 6 settimane continuare il trattamento in cronico solo nei pazienti con ridotta funzione sistolica del VS (FE < 40%). Diversi ACE-inibitori hanno mostrato, in questi ultimi anni, di ridurre la mortalità migliorando la compliance ventricolare. L’ISIS-4, il GISSI-3 ed altri trias hanno dimostrato di ridurre il reinfarto, il bisogno di rivascolarizzazione e la mortalità. Gli ACE-inibitori vengono raccomandati nelle prime ore dopo l’infarto, nelle complicanza post-ischemiche e maggiormente nei pazienti con frazione di eiezione <40%. Le dosi vanno dimensionate proporzionalmente alla pressione arteriosa del paziente. Nel SAVE study, l’associazione degli ACE-inibitori con i b-bloccanti ha dimostrato di ottenere effetti positivi additivi.

f) Diltiazem: può ridurre l' incidenza di angina postinfartuale e reinfarto nell' IMA non-Q. Nell' IMA non-Q in assenza di disfunzione ventricolare sinistra, dopo le prime 24 ore si somministra alla dose di 90 mg ogni 6 ore per un anno. I calcioantagonisti erano un cardine nella terapia dell’ischemia miocardica. Attualmente, il TRENT study, il VAMI eil DAVIT III study ed altri trials hanno dimostrato che i calcio-antagonisti, maggiormente la nifedipina, possono aumentare la mortalità se somministrati a pazienti con IMA. Probabilmente, questo effetto è dovuto ad un effetto di vasodilatazione coronaria, con sbilanciamento delle pressioni di perfusione ed aggravamento dell’ischemia; esistono anche altre ipotesi: alterazione della contrattilità (isotropi positivi) e effetto tachicardizzante (cronotropi positivi) con aumento del consumo miocardico di ossigeno.

 

Se i farmaci non hanno successo si possono attuare le procedure invasive.

a. Angioplastica coronarica transluminale percutanea (PTCA).

Permette di ristabilire meccanicamente la pervietà della coronaria responsabile dell' IMA, così da interrompe l' infarto, ridurre l' area di necrosi, migliorare la funzione sistolica del VS, e aumentare la sopravvivenza. Richiede la pronta disponibilità di un' equipe cardiochirurgica per un eventuale bypass aortocoronarico d' emergenza. Rappresenta un'alternativa alla terapia trombolitica. È inidicata in: pazienti da trombolisare con controindicazioni alla trombolisi, pazienti trombolisati che continuano ad accusare dolore e a presentare alterazioni ECG per inefficacia della trombolisi, pazienti non trombolisati che sviluppano shock cardiogeno entro 6 ore dall' insorgenza dei sintomi. La ricanalizzazione meccanica mediante PTCA è in grado di ottenere una riapertura del vaso in oltre il 90% dei pazienti se eseguita in tempi rapidi (entro 60-90 min dall' arrivo del paziente nel Dipartimento Emergenza Urgenza e dalla diagnosi di IMA).

 

b. Bypass aortocoronarico (Coronary artery bypass surgery o CABG).

Chirurgicamente si rivascolarizza la coronaria responsabile dell' IMA a valle dell' ostruzione così da interrompere l' infarto, ridurre l' area di necrosi, migliorare la funzione sistolica del VS e aumentare la sopravvivenza. È indicato in: pazienti da trombolisare con controindicazioni alla trombolisi ed alla PTCA e con anatomia favorevole alla chirurgia con IMA insorto da non più di 6 ore, pazienti sottoposti a PTCA fallita con persistenza di dolore e/o instabilità emodinamica con anatomia favorevole alla CABG, angina persistente o ricorrente refrattaria alla terapia medica con controindicazioni alla PTCA e anatomia favorevole alla chirurgia, shock cardiogeno e anatomia coronarica non suscettibile di PTCA ma favorevole al bypass entro 6 ore dall' insorgenza dell' IMA. Può essere indicato al momento della riparazione chirurgica di una complicanza meccanica con instabilità emodinamica (rottura di un muscolo papillare, perforazione del setto interventricolare).

 

 

Qual è la prognosi?

 

 

Il tasso di mortalità naturale, esclusi i decessi immediati, si aggira sul 15-30%, ridotto al 10% in caso di ricovero ospedaliero. Esso aumenta bruscamente con l'età, è superiore per le donne ed in caso di recidiva; è più elevato nelle prime ore per poi decrescere rapidamente. Il 60% dei decessi entro le quattro settimane avviene nei primi due giorni, quando si possono manifestare aritmie improvvise. Lo shock cardiogeno ha un tasso di mortalità dell'80-90%; lo sviluppo di aritmie rende la prognosi infausta, così come eventi tardivi (recidiva, rottura di cuore ed embolia polmonare).

 

CLASSIFICAZIONE DI KILLIP
(correla il grado di scompenso del Ventricolo Sinistro secondario ad IMA con la mortalità ospedaliera)

Classe

Caratteristiche cliniche

% degli IMA

Mortalità ospedaliera

1

Nessuna evidenza clinica di insufficienza ventricolare sinistra (assenza di III tono e di stasi polmonare)

40-50%

6%

2

Insufficienza ventricolare sinistra lieve-moderata

(III tono e rantoli alle basi)

30-40%

17%

3

Insufficienza ventricolare sinistra grave; edema polmonare (Edema Polmonare Acuto)

10-15%

38%

4

Shock cardiogeno: ipotensione, tachicardia, obnubilamento del sensorio, estremità fredde, oliguria, ipossia

5-10%

81%

 

 

Nell'ultimo decennio, la gestione dell'infarto miocardico si è profondamente trasformata: mentre in precedenza si trattavano le complicanze a mano a mano che si presentavano, ora si cerca di risolvere più attivamente i processi patologici soggiacenti e di prevenirli. Il ricorso all'aspirina ed alla terapia trombolitica può ridurre il tasso di mortalità del 50%; esso scende ulteriormente mediante l'uso dei betabloccanti e degli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina (ACE).
La prognosi, il decorso ed il rischio dell'ischemia e dell'infarto silente non differiscono sostanzialmente dalle forme che si accompagnano a dolore; non si tratta di forme "lievi" della malattia; anzi, l'assenza di un campanello di allarme come il dolore può esporre in definitiva il paziente ad un rischio maggiore.

Un tempestivo riconoscimento del quadro patologico e una pronta messa in opera delle manovre rianimatorie appropriate fino al trasferimento in ospedale sono molto fattori essenziali per riuscire a superare il momento dell'infarto.

Tra gli effetti dell'infarto sono i blocchi atriali o ventricolari, la fibrillazione (contrazione anomala del muscolo cardiaco con modifica della frequenza) e la tachicardia.

 

Classificazione del rischio

La prognosi è migliore nei pazienti esenti da ipertensione, angina ed insufficienza cardiaca; i rischi di ulteriore infarto e morte improvvisa persistono ma diminuiscono col passare del tempo. La prognosi a lungo termine è determinata da tre fattori:

- valutazione della funzione ventricolare sinistra: è il dato cruciale, indicato dalla frazione di eiezione (per valori di quest'ultima inferiori al 30% la mortalità si accresce considerevolmente), rilevabile con ecocardiografia o imaging con radionuclidi;

- entità della malattia coronarica residua: l'angiografia coronarica è d'aiuto ma non fornisce informazioni sulla gravità funzionale delle lesioni. Un ruolo importante è altresì rivestito dai test sotto sforzo;

- valutazione dell'instabilità elettrica e suscettibilità alle aritmie gravi: fra gli strumenti di ricerca, il monitoraggio Holter, l'elettrocardiografia ad alta risoluzione, la valutazione della variabilità della frequenza cardiaca e la misurazione della disfunzione. 

 

 

Cosa succede nella zona del cuore in cui le cellule sono morte?

In alcuni casi di infarto la porzione di parete del muscolo cardiaco non più contrattile, cicatriziale ed assottigliata, protrude durante la contrazione (in sistole), dando luogo a quello che si definisce aneurisma ventricolare. Questa, comunque è una conseguenza abbastanza rara dell'infarto; generalmente, invece, l'assottigliamento della zona infartuata, pur senza dar luogo all'aneurisma, finisce col provocare un'alterazione più o meno grave della geometria ventricolare, che risponde a precise e rigorose leggi fisiche, ed un deterioramento della funzione meccanica della pompa.
E' intuitivo che le conseguenze "meccaniche" dell'infarto saranno tanto più gravi quanto più estesa è la zona assottigliata e non contrattile; generalmente, si ritiene che l'infarto sia più o meno grave in relazione alla sede (anteriore, o posteriore o inferiore). Tradizionalmente si ritiene che l'infarto posteriore o inferiore sia meno grave di quello anteriore; questo potrà anche essere vero, ma la cosa più importante nel determinare la prognosi sia immediata sia a distanza dell'infarto non è tanto la sua sede, quanto la sua estensione. È meglio, quindi, sotto questo aspetto, distinguere infarti piccoli e circoscritti da infarti estesi. Inoltre, i danni meccanici prodotti da un eventuale secondo infarto, soprattutto se questo interessa una zona diversa dal precedente, si sommano a quelli provocati dal primo.

 

STADIO

CARATTERISTICHE DELL’ECG

Stadio 0

(stadio dell’onda T da ipossia)

Ø      Onde T alte ed aguzze;

Stadio 1

 (stadio ST)

Ø      Sopraslivellamento dell’ST;

Stadio 1-2

Ø      Segmento ST ancora leggermente sopraslivellato;

Ø      Onda T negative in fase teminale;

Stadio 2

(stadio T)

Ø      Negativizzazione dell’onda T;

Ø      Onde Q > 0.03‘’ e più profonde di ¼ della successiva onda R;

Stadio 2-3

Ø      ST isoelettrico;

Ø      Onda T non ancora sollevata;

Ø      Onde Q ampie;

Stadio 3

(stadio finale)

Ø      Onda T non ancora sollevata;

Ø      Onda Q>0.04’’;

Stadio 3

 (guarigione totale)

Ø      Onda T nuovamente sollevata;

Ø      Non onda Q da infarto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ARTERIA COINVOLTA

DERIVAZIONI INTERESSATE

Mortalità a 30gg

Mortalità

ad 1 anno

Antero-apicale

Ramo interventricolare anteriore della coronaria sinistra

V3, V4, I, aVL

19.6%

25.6%

Antero-settale

Rami della branca interventricolare anteriore della coronaria sinistra

V1,V2,V3

9.26%

12.4%

Laterale

Ramo circonflesso della coronaria sinistra

V5,V6,V7,I,aVL

6.4%

8.4%

Inferiore - diaframmatico

Coronaria destra

II, III, aVF

4.5%

6.7%

Infero-laterale

Coronaria destra o ramo circonflesso della coronaria sinistra

V5,V6,V7,II,III,aVF

Posteriore

Ramo circonflesso della coronaria sinistra

modificazioni speculari in V1,V2 e V3

Postero-laterale

Ramo circonflesso della coronaria sinistra

V7,V8,V9

 

 

 

Quali sono le complicanze?

 

 

a) Turbe della frequenza, del ritmo e della conduzione: si sviluppano nel 95% dei casi. Vi si annoverano le più gravi, le aritmie ventricolari (battiti ectopici ventricolari; tachicardia ventricolare, che può compromettere l'equilibro emodinamico e tramutarsi in fibrillazione ventricolare; fibrillazione ventricolare, la principale causa di morte improvvisa nell'8-10% dei pazienti ricoverati, trattata col defibrillatore e le manovre di rianimazione cardiopolmonare); le aritmie atriali (fibrillazione atriale e flutter atriale), che indicano in genere una significativa disfunzione ventricolare ed una prognosi infausta; le bradiaritmie (bradicardia sinusale, comune nella prima fase di infarti inferiori e posteriori, specie per la risposta vagale al dolore; bradicardia nodale, spesso legata alla riperfusione; blocco cardiaco, specie nell'infarto inferiore, dovuto al fatto che la coronaria destra rifornisce il nodo atrioventricolare (il blocco completo è legato all'infarto massivo ed ha prognosi infausta); i blocchi di branca (bi- o trifascicolare), anch'essi con prognosi infausta.

b) Insufficienza cardiaca: può essere insufficienza sinistra (si sviluppa entro 48 ore in un terzo dei pazienti) o destra, specie in infarti inferiori e posteriori. I pazienti tendono ad avere una bassa portata cardiaca o uno shock cardiogeno con un polso giugulare elevato, mentre gli altri sintomi tipici (edema delle caviglie ed epatomegalia) si sviluppano successivamente.

c) Shock cardiogeno: nella fase iniziale, il paziente è pallido, affaticato ed ipoteso: questo quadro è dovuto spesso al dolore e non va confuso con quello dello shock cardiogenico, che presenta le caratteristiche dell'ipotensione, con estremità fredde e cianotiche, sudore e torpore mentale; esso dura almeno mezzora o si deteriora rapidamente sino a che la pressione non può più essere rilevata, con un calo della portata cardiaca, oliguria, ipossia ed acidosi. L'insufficienza cardiaca e l'aritmia si associano spesso a questo quadro, con un tasso di mortalità dell'80-90%: è una situazione legata ad infarti massivi, ove è colpito oltre il 40% della parete ventricolare. Le cause scatenanti possono essere anche:

- aritmie e disordini della conduzione,

- ipovolemia (in seguito a terapia con diuretici ed antipertensivi),

- infarto del ventricolo destro (con bassa pressione arteriosa sistemica e polmonare),

- lesioni eventuali.

I pazienti sono classificati in tre gruppi:

- normotesi con edema polmonare,

- ipotesi,

- ipotesi con edema polmonare, il gruppo più a rischio, ove si cerca di migliorare la funzione ventricolare sinistra riducendo l'afterload con i vasodilatatori ed aumentando la contrattilità con farmaci inotropi. E' importante non sovraccaricare la circolazione né abbassare troppo la pressione di riempimento del ventricolo sinistro, mantenendo la pressione arteriosa polmonare fra i 15 e i 20 mm/HG. 

d) Complicanze meccaniche: possono dar luogo a shock cardiogeno od insufficienza cardiaca. Vi si annoverano il difetto del setto ventricolare, che complica in genere gli infarti estesi e richiede un intervento d'urgenza; la rottura del muscolo papillare, che complica gli infarti di dimensioni ridotte e richiede a sua volta la chirurgia d'urgenza (l'ecografia rivela un rigurgito mitrale); la rottura di cuore, lungo la parete del ventricolo sinistro, che presenta le caratteristiche cliniche della dissociazione elettromeccanica e causa il 10% dei decessi, specie fra anziani ed ipertesi, e porta a morte immediata se acuta, mentre può essere riparata chirurgicamente se sub-acuta.

e) Recidiva d'ischemia e d'infarto: I pazienti sono vulnerabili ad un'estensione dell'infarto originario o ad un nuovo infarto, per cui si parla di "infarto ricorrente". Vi è anche il rischio di reocclusione dopo una riperfusione efficace. L'angina post-infarto è indicazione di angiografia coronarica in vista di un'angioplastica o di bypass.

f) Complicanze varie: possono essere l'embolia o l'infarto polmonare (spesso a causa di una lunga immobilizzazione), l'embolia arteriosa sistemica (spesso l'esito è l'emiplegia o l'occlusione di un'arteria), gli eventi cerebrovascolari.

g) Pericardite: il dolore avvertito si aggrava inspirando ed in posizione supina. Il trattamento con antinfiammatori è sconsigliato in quanto potrebbe contribuire all'espansione dell'infarto e ad un avverso rimodellamento ventricolare; sono controindicati gli anticoagulanti per il rischio di indurre una pericardite emorragica.

 

Complicanze tardive

La compromissione ventricolare può essere aggravata dal rimodellamento ventricolare, che avviene nelle settimane e nei mesi post-infartuali, con l'espansione e l'assottigliamento della zona colpita. Ciò porta ad un incremento del volume ventricolare, che a sua volta accresce la tensione della parete instaurando un circolo vizioso. Gli ACE-inibitori contribuiscono ad evitare un rimodellamento sfavorevole.

La forma più estrema di rimodellamento è la formazione di un aneurisma ventricolare, dimostrabile tramite ecocardiografia, studi ai radionuclidi e ventricolografia sinistra. La parte di miocardio non contrattile porta ad un sovraccarico di lavoro per il muscolo restante, il che può contribuire all'insufficienza con rischio di formazione di trombi e gravi aritmie.   

L'instabilità elettrica può poi portare ad una suscettibilità a lungo termine a gravi aritmie ventricolari, con ritardi della conduzione e circuiti rientranti.

 

 

dimissioni

 

 

Terapia alle dimissioni

Per migliorare la prognosi a lungo termine, le terapie sono le seguenti:

- betabloccanti (riducono la mortalità del 25%, e sono più vantaggiosi nei casi maggiormente a rischio);

- ACE-inibitori (riducono la mortalità a lungo termine, ma si discute sul momento di inizio della terapia più opportuno);

- statine (contribuiscono riducendo il tasso di colesterolo);

- aspirina (di provata efficacia nella fase acuta e sub-acuta post-infartuale, è consigliata come terapia a lungo termine a meno che vi siano controindicazioni).

I dati ad oggi disponibili (in assenza di un valido confronto diretto tra aspirina e anticoagulanti orali regolati sulla base dell’INR) indicano che nel post-infarto il trattamento con aspirina (da 100 a 325 mg al giorno) rappresenta, in assenza di controindicazioni specifiche, una scelta terapeutica irrinunciabile in tutti i pazienti con basso o assente rischio tromboembolico. Il trattamento dovrebbe essere proseguito per almeno tre anni dall’evento o, meglio, sine die. Resta in sospeso invece l’uso del clopidogrel per questa indicazione.

In tutti i pazienti che presentano un alto rischio tromboembolico (IMA anteriore esteso, ampie zone di disfunzione ventricolare sinistra, trombosi ventricolare sinistra, in presenza o meno a fibrillazione atriale) l’impiego degli anticoagulanti orali, mantenendo un INR tra 3 e 4,5 (l’unico validato da trial), rappresenta l’opzione terapeutica di scelta.

 

 

Riabilitazione

L'esito a lungo termine quanto al ritorno alle normali attività è spesso deludente, spesso per fattori fisici ma anche in seguito all'ansia o ad un riabilitazione inadeguata. Nei casi più lievi potrebbe essere utile svolgere un test di tolleranza allo sforzo 1-2 settimane dopo l'infarto, volto a raggiungere una frequenza cardiaca sui 120-130. Qualora tale frequenza venga raggiunta senza sintomi cardiaci od una depressione del segmento ST sull'ECG, le prospettive di un rapido ritorno alla normalità sono buone; i pazienti con un esito del test meno favorevole richiedono invece una convalescenza più lenta ed un monitoraggio più rigoroso. Qualora vi siano angina o dispnea, bisogna prestare particolare attenzione alla terapia farmacologica e prendere in considerazione i trattamenti interventistici. Bisogna inoltre tenere sotto controllo tutti gli altri fattori di rischio (fumo, ipercolesterolemia, ipertensione e diabete). Il programma di riabilitazione va sempre adeguato alle esigenze del singolo paziente.  

 

 

Come evitare l'infarto miocardico?

L'infarto miocardico, per la sua notevole frequenza, rappresenta oggi un vero problema sociale. Il soggetto colpito, per quanto la lesione evolva benignamente, può restare compromesso ed è sempre un coronaropatico. Oltre alla terapia, quindi, ci si deve porre il problema della prevenzione, che consiste nel controllo di quei soggetti che per varie ragioni possono essere i candidati più probabili all'infarto.

Adeguate regole di vita e il controllo di condizioni predisponenti quali l'ipertensione. il diabete, l'obesità e i disturbi del metabolismo lipidico, sono in definitiva il mezzo più efficace per combattere l'infarto miocardico. Nel periodo che segue l'infarto il paziente deve modificare il proprio stile di vita, eliminando il fumo e assumendo una dieta corretta. Il recupero di una qualità accettabile della vita dipende dalla tempestività dell'intervento medico e dalla volontà del paziente di abbandonare stili di vita dannosi.

 

L'aspetto preventivo rappresenta un capitolo molto importante nel quadro delle patologie cardio-circolatorie.

Infatti è stato ormai accertato da numerosi studi e ricerche che i fattori di rischio sono le condizioni sulle quali si può agire in modo efficace. Per cui è consigliabile:

- smettere di fumare
- mantenere il peso ideale
- alimentarsi con cibi poveri di grassi animali
- praticare un esercizio fisico regolare e senza eccessi
- mantenere a livelli normali la pressione arteriosa, il colesterolo
 e la glicemia

 

Si può ritornare ad una vita normale?

Un infarto piccolo non ha conseguenze gravi. La riabilitazione ed una terapia appropriata permetterà al muscolo cardiaco di riprendere la propria funzione e lascerà solo strascichi trascurabili.
Il 50% delle persone colpite da un infarto miocardico ritornano ad una vita normale nel giro di pochi mesi.

 

I numeri del cuore italiano

300: casi di infarto ogni 100.000 abitanti

80.000: infarti diagnosticati ogni anno.

8 %: casi di reinfarto ad un anno dal primo evento.

200.000: persone con fibrillazione striale… delle quali

il 5-7 %: lamenta, ogni anno, embolie cerebrali con decadimento delle funzioni cognitive sino alla demenza.

250: casi di ictus ogni 100.000 abitanti.

35-40 %: casi di ictus in meno con la riduzione di 5-6 mmHg di pressione sistolica.

1.000.000: sopravvissuti ad almeno un infarto.

 a cura del Centro per la Lotta Contro l'Infarto

 

Contro l'infarto: aspirina, clopidogrel o tutti e due?

Per me, vecchio abitudinario, era già stata una grande sorpresa apprendere che l'aspirina, amica infallibile nei giorni di febbre e di raffreddore, è molto efficace nel curare e prevenire l'infarto. Oggi leggo che è stata scoperta un'altra molecola, il clopidogrel, il cui uso si va diffondendo nonostante il prezzo elevato. Cosa consigliate?

Renzo F - Carpi

 

Quella di impiegare l'aspirina nella cura delle malattie di cuore è una storia sorprendente e curiosa. Il Dr Lawrence Craven, padre atipico della scoperta, era uno di quei medici pratici che hanno spiccato spirito d'osservazione, una buona dose di curiosità scientifica e una totale mancanza di conoscenze della metodologia della ricerca. Fu così che, tra il 1948 ed il 1956 il Dr. Craven, libero professionista a Boston, scrisse molti lavori di scarsa risonanzae ed una lettera confinata sul misconosciuto Mississippi Valley Medical Journal. Craven raccontava che, tra i suoi pazienti, quelli che facevano uso assiduo dell'aspirina e, ancor più, coloro che avevano accettato la somministrazione quotidiana di 250-750 mg di aspirina, mostravano una riduzione cospicua dei casi di infarto miocardico.

I lavori del Dr. Craven mancavano di rigore scientifico, cioè non si avvalevano del confronto tra il gruppo di coloro che assumevano l'aspirina ed un gruppo di controllo che non assumesse aspirina, ma rappresentarono ugualmente una tappa storica dato che le successive ricerche, condotte in piena ortodossia metodologica, dimostrarono la validità dell'intuizione. Fa spicco, tra tali studi, l'ISIS-2 che, nel 1988, santi la capacità dell'aspirina di ridurre del 23% la mortalità dopo un infarto. L'assunzione della compressa di aspirina comporta una spesa giornaliera sulle 150 lire (€ cent 7) .

Il meccanismo d'azione è soprattutto quello antiaggregante piastrinico, consistente nel ridurre la tendenza delle piastrine ad aggregarsi favorendo la formazione del trombo che restringe od occlude le arterie. Un inconveniente non trascurabile dell'aspirina è la gastrolesività, ovvero la prerogativa di favorire l'ulcera gastroduodenale. È per questo che l'aspirina va assunta a stomaco pieno e sconsigliata agli ulcerosi.

Un altro potente farmaco antiaggregante piastrinico in compresse recentemente approvato dalla Food and Drugs Administration è il clopidogrel (nomi commerciali: Plavix e Iscover), sicuramente efficace nella prevenzione degli eventi cardiovascolari da arteriosclerosi, meno gravato da effetti indesiderati sullo stomaco. L'attenzione dei ricercatori è attualmente rivolta alla somministrazione contemporanea di aspirina e di clopidogrel, soprattutto nelle forme maggiori di insufficienza coronarica, quali l'angina instabile e l'infarto miocardico non Q. L'efficacia comparativa del clopidogrel merita di essere valutata ulteriormente, considerando anche l'elevato prezzo giornaliero (L. 5750, € 2,96).

Prof. Pier Luigi Prati in CUORE E SALUTE, dicembre 2002